Straziante ma necessario. “Le madri non dormono mai“, il nuovo romanzo di Lorenzo Marone è ambientato in un Icam (Istituto a custodia attenuata per detenute madri). In questa sorta di limbo (lo scrittore ne ha visitati alcuni per documentarsi e ne parla a ragion veduta) madri e figli (fino ai 10 anni) sono accolti in mini appartamenti circondati da sbarre; le regole sono quelle del carcere, ma le guardie sono gentili, i volontari fanno giocare i bambini e le ore d’aria sono dilatate. Qui paradossalmente i bambini ricevono più attenzioni e cure rispetto a quando stanno fuori, liberi ma in mondo difficile da affrontare.
Anche se ha l’efficacia di un reportage, il libro di Marone è un racconto collettivo dove in primo piano ci sono le storie dei protagonisti. Sono donne finite in carcere per amore di un compagno che le costringe a coprire lo spaccio o i furti o per ingenuità, come Amina arrivata dall’Africa in cerca di lavoro e finita sulla strada. Le loro storie si intrecciano a quelle di chi sta fuori ma vive dentro, come Greta la psicologa del carcere o Miki la guardia; entrambi dietro i sorrisi e la dedizione nascondono ombre e drammi personali. Al centro c’è Miriam, con “la guerra dentro e in testa il ruggito” che nasconde la sua bellezza dietro la durezza con la quale cresce il figlio Diego, 9 anni, per temprarlo e prepararlo alla vita. Lui, sensibile e fragile, uno che era sempre stato zitto, bullizzato a scuola, in carcere riceve attenzioni e impara a parlare, fiorisce e intreccia nuove amicizie. Come quella con la dolce Melina che a causa della malnutrizione di cui ha sofferto, non riesce a stare in piedi, ma ogni giorno scrive sul suo quaderno una parola bella. Ci sono poi Gambu e Adamu, scatenati e sempre allegri, i figli di Amina che non sapranno mai chi è il loro padre e Jennifer, piccola e già indurita dalla vita. I bambini giocano, sognano e fanno finta di essere liberi. Ma nessuno lo è, nemmeno le mamme, alle quali nessuno ha insegnato come crescere i figli, ma che per istinto cercano di proteggerli.
Senza i figli quelle madri si riducevano all’osso, senza i figli erano solo detenute.
Marone con questi personaggi ai quali è inevitabile affezionarsi, punta la luce sugli invisibili, persone la cui vita è segnata fin dall’inizio, di cui nessuno, lo Stato per primo, sembra preoccuparsi. E pone domande sul significato della libertà e su cosa significhi essere prigionieri anche senza le sbarre. Sono poche le risposte e nonostante i cambiamenti e le buone intenzioni, non c’è un lieto fine. Ma mentre i personaggi così veri e reali svaniscono dalle pagine del libro, resta il rispetto che si sono conquistati, almeno sulla carta.